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In corsa sulla scia dei campioni

di Giorgio Barba Navaretti

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23 gennaio 2010

Scoprire le virtù della nostra economia è utile. Quando le cose vanno male, l'ottimismo diventa un fattore produttivo, come direbbe l'arido economista: non si misura ma aumenta la produttività. La fotografia proposta dal rapporto Aspen/Fondazione Edison ci ricorda che l'Italia è un paese ricco e con un'elevata qualità della vita. Ma come possono le nostre virtù continuare a creare ricchezza futura? Che ci dicono gli indicatori statici riportati giovedì scorso su queste pagine sulla nostra capacità di crescere?
Domanda da cento punti, se non vogliamo trovarci tra qualche anno a guardare questa fotografia con la malinconia dell'attrice bollita che ricorda la sua migliore gioventù. E anche legittima, visto che è proprio la dinamica il nostro punto debole. Il Pil pro-capite è cresciuto in Italia in media tra il 2000 e il 2008 dello 0,4%, meno che in tutti gli altri paesi Ocse e meno di un terzo che in Francia e Germania.
Certo è il solito arido Pil, che non tiene conto di molte cose, ma comunque è e rimane un parametro di riferimento fondamentale. Il motore della crescita è la competitività. Nel nostro paese questa si fonda sulla forza del manifatturiero e sulla capacità di esportare. La crisi ha dimostrato l'importanza di aver tenuto piedi profondamente radicati in quest'attività produttiva. I beni esportabili sono in grande maggioranza manufatti e un'economia medio piccola come la nostra, soprattutto a forte dipendenza energetica, non potrebbe permettersi gli squilibri che deriverebbero da una mancanza di prodotti da esportare.
Allo stesso tempo, però, la leadership di mercato in molti settori deve fare i conti con forze competitive sempre più forti. Se consideriamo la meccanica, il settore campione delle nostre esportazioni, circa il 20% del totale, la nostra quota di mercato globale è scesa dal 9,7% del 2002 all'8,9% nel 2008, nonostante un tasso di crescita medio annuo delle vendite all'estero in valore nel periodo del 7,3% (Istat-Ice). Se noi siamo bravi, gli altri fanno meglio di noi.
Il problema è che il nostro sistema produttivo è estremamente eterogeneo anche all'interno dei singoli comparti industriali. Accanto ai campioni ci sono moltissime imprese che fanno fatica a sopravvivere, troppo piccole, fragili e sottocapitalizzate per raggiungere mercati lontani e che di conseguenza rallentano la performance media del paese.
Questo fenomeno spiega perché la dinamica della produttività totale dei fattori (il canale principale di creazione di ricchezza aggregata) sia piuttosto deprimente: dal 1995 è diminuita del 5%, mentre in Germania è cresciuta del 30% e in Francia del 26% (dati Euklems). Anche se ci limitiamo alla meccanica, troviamo ancora un calo del 5%, contro un aumento negli altri due paesi europei. E indicazioni simili si ottengono guardando alla produttività del lavoro.
L'inequivocabile triste dinamica della nostra performance media sta a indicare che i vincenti, le imprese virtuose (la parte creativa del processo) non hanno ancora una massa critica sufficiente per compensare la zavorra di chi non riesce a svilupparsi. Per questo motivo, ogni riflessione sulle riforme di cui il sistema produttivo ha drammaticamente bisogno deve partire da una distinzione chiara tra i due gruppi d'imprese, a prescindere dal settore e anche dal territorio (Sud e Nord del paese).
Le aziende virtuose devono potersi rafforzare e crescere creando poli di eccellenza, il che significa tecnologie e innovazione, conoscenze profonde dei mercati globali, personale qualificato abituato a operare in ambito internazionale, strumenti di governance moderni. Poli d'eccellenza che sappiano generare domanda di ricerca e nuova tecnologia. Ma rafforzare l'eccellenza significa allo stesso tempo governare il lato oscuro dei processi di ristrutturazione industriale, ossia la parte non competitiva del sistema produttivo, riducendo i costi dell'uscita dal mercato delle imprese decotte. Il che implica scelte coraggiose. Se la cassa integrazione ha protetto bene l'occupazione durante la crisi, abbiamo ora bisogno di ammortizzatori sociali che favoriscano la mobilità dei lavoratori disoccupati, piuttosto che l'ancoraggio all'impresa di origine. E per la stessa ragione il rafforzamento della contrattazione di secondo livello, che permette di legare salari e produttività di impresa, è un passo essenziale per favorire la crescita delle aziende virtuose.
Insomma, il nostro sistema produttivo è un pianeta a due facce. Guardandone una sola rischiamo di restar ciechi, o per troppo buio o per troppa luce.
barba@unimi.it

23 gennaio 2010
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